PRODOTTI CUSTOMIZZATI, UPCYCLING E CONTRAFFAZIONE

Posso usare una borsa firmata per farne una cintura o un paio di scarpe?

Ni.

Tanti anni fa, forse era preistoria, acquistai un cintura Louis Vuitton, avevo chiesto alla Maison di farla accorciare e il pezzo che era avanzato non mi era stato restituito. Avevo chiesto la motivazione considerato che l’avevo pagata intera e mi era stato risposto che era per evitare di far utilizzare quel pezzo per produrre autonomamente altri oggetti, come ad esempio un portachiavi.

Se andiamo a vedere il fatto di non restituire il pezzo eliminato era stato un po’ una forzatura, nel senso che quest’ultimo mi era stato trattenuto a prescindere, Vuitton non poteva sapere cosa io ne avrei fatto (probabilmente niente) ma se io l’avessi trasformato in un portachiavi per poi rimetterlo sul mercato in versione alterata/modificata avrei commesso un reato, se vogliamo riassumere in maniera molto spiccia.

Perché? Perché Vuitton così come tutti i marchi di lusso ed in generale quelli registrati tutelano i loro marchi e combattono la contraffazione da che mondo è mondo. Fanno i loro interessi, ovviamente.

La differenza sostanziale sta quindi nel fatto che i prodotti detti “customizzati” (quelli oggi tanto famosi fatti con materiali coperti da marchi registrati) finiscano o meno in commercio.

Pertanto se la titolarità dell’oggetto mi permette di disporne a mio piacimento, diverso diventa il discorso se io ne traggo un profitto.

Faccio un esempio, io acquisto un portafoglio di Chanel vintage, aggiungo una catena modificando in modo permanente l’oggetto e lo faccio diventare un Wallet On Chain (WOC) e lo rivendo, io commetto il reato di contraffazione perché quell’oggetto intanto a catalogo Chanel non esiste, quindi diventa un falso a tutti gli effetti, ed infine io traggo un profitto dalla modifica del prodotto perché da portafoglio diventa una borsa e quindi il valore aumenta esponenzialmente.

Tra le altre cose, se si fa prima il certificato Entrupy all’oggetto e questo risulta originale, bucandolo ed applicando delle catene (pure no brand) il portafoglio (o altro articolo che sia), perde immediatamente l’originalità, quindi a tutti gli effetti state passeggiando in Via Montenapoleone con un falso.

Faccio un altro esempio, se io utilizzo la tela Monogram di una borsa Vuitton tagliandola a strisce e ne faccio dei braccialetti e li vendo, commetto lo stesso reato di contraffazione, punito penalmente.

Ho visto sui social negozi che pubblicizzano platealmente cappotti e soprabiti fatti con il Plaid Avalon di Hermès (costo retail 1540 euro) o con altre coperte. Bene, un cappotto nuovo di Hermès adesso costa circa 6000/9000 euro a seconda del modello, i cappotti fatti con le coperte erano messi in vendita da circa 2500 euro a 4000 euro.

Tanti si nascondono miseramente dietro l’up cycling ma nel caso di materie prime nuove e a marchio registrato cadiamo sempre nella contraffazione.

Il termine upcycling viene coniato nel 1994 da un ingegnere meccanico tedesco, Reiner Pilz che, in un’intervista su una rivista di architettura e antichità parla del riciclo dicendo: “Il riciclo io lo chiamo down-cycling. Quello che ci serve è l’up-cycling, grazie al quale ai vecchi prodotti viene dato un valore maggiore, e non minore”.

L’upcycling sarebbe quindi molto diverso dal recycling, il riciclo, il cui obiettivo a volte è quello di far tornare un oggetto alla stessa funzione, a volte quello di trasformarsi perdendo valore. L’upcycling, invece, significa riutilizzare gli oggetti per creare un prodotto di maggiore qualità, reale o percepita. 

Se applichiamo questo principio nobilissimo alla materia prima in condizioni usate, anche da bidone della spazzatura, sono la prima ad appoggiare questa filosofia, diversamente se se ne fa un’attività, un business con profitto cadiamo nella contraffazione e nella concorrenza sleale.

Parlo in prima persona perché sono un negozio, ma anche il privato che mette in commercio questi stessi oggetti corre lo stesso pericolo.

E’ nota la sensibilità dei marchi di lusso sui prodotti contraffatti, è la loro prima concorrenza e il loro danno maggiore. C’è anche da dire che i prezzi attuali del nuovo portano a trovare delle soluzioni non esattamente ortodosse per riuscire a vendere bene a prezzi più bassi e per avere un margine.

Questa non può essere comunque una giustificazione per chi mette in commercio prodotti modificati e non lo è nemmeno inneggiando ad una nobile ideologia ovvero riuscire a soddisfare il desiderio di avere un oggetto di lusso a chi non può permetterselo, perché lo scopro di lucro mascherato da “il lusso a modo mio” non sta bene su tutto.

Prossima domenica ci rivedremo con un articolo su Fendi ed il progetto HAND IN HAND, cose meravigliose, incredibili ed impossibili da replicare a piacimento.

A bientôt 🐾

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